Nota Biografica
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Potrà sembrare incredibile, ma io ho vissuto i primi anni di vita senza televisione. Fino al 1954 perché la televisione non c’era ancora, poi perché mio padre acquistò un televisore solo nel 1960.
Una mancanza che non pesò troppo sulla nostra vita di adolescenti perché la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista avevano pensato bene di mettere a disposizione di tutti “Il musichiere”, ”Lascia o Raddoppia?”, le partite della nazionale di calcio e il Festival di San Remo allestendo una sala di visione nei loro circoli ricreativi.
Così noi ragazzi si andava da una parte o nell’altra, attratti, più che da motivazioni politiche ideologiche e dalle trasmissioni del piccolo schermo, dalle nostre coetanee che, grazie alla televisione, ottenevano per la prima volta il permesso di uscire anche la sera.
Ma soprattutto ci piaceva piazzarci davanti ai juke-box, con i dischi a 78 giri di Elvis Presley e Little Richard, che, insieme ai flipper, invasero i bar italiani sul finire del 1956.
Con la televisione nascevano i nostri miti. Era suppergiù il 1958-59. Fra luglio e Natale riuscì a comprare un paio di jeans a 2500 lire, un giubbetto a 3000 lire e un eskimo grigioverde a 11 mila lire.
Nel paese dove abitavo, poco più di tremila abitanti, c’era un solo ‘spazzino’ (l’operatore ecologico allora si chiamava così) che raccoglieva l’immondizia e la scaricava in una “buca” (la discarica allora si chiamava così) a due passi dalle case.
Ma c’è da dire che, a parte il letame di asini, muli e cavalli, non esistevano rifiuti: la gente comprava la pasta, la conserva, il tonno, il salame e la mortadella avvolti in fogli di carta più o meno capienti. Carta oleata o gialla, a seconda della merce. Per l’olio si portava da casa una bottiglietta. E la marmellata o la cioccolata spesso il negoziante la spalmava direttamente sulle nostre fette di pane. La poca carta che entrava in casa veniva subito riciclata per accendere il camino e la ‘cucina economica’ mentre i giornali erano contesi per la loro “morbidezza” e appesi vicino al gabinetto.
Il Carosello televisivo fu un potente agente di diffusione di nuovi consumi e di nuovi riti collettivi nel bel mezzo di un passaggio strutturale e culturale destinato a cambiare l’Italia.
Un boom che non portò soltanto jeans, juke-box e rock and roll, ma che segnò nel bene e nel male, uno snodo epocale nel modo di lavorare, vivere, pensare, consumare e smaltire il superfluo. Fu così che messo da parte il riutilizzo, prese piede il costume di usare il contenuto e gettare il contenitore.
In quell’Italia, di paesi e città e di molta campagna, noi ragazzi ci tuffammo con entusiasmo, coltivando sogni e speranze e confidando nel possibile e nell’impossibile. In quell’Italia attraversai le medie sull’onda del rock and roll e fu una scossa. Durante il liceo, con Bob Dylan e De André, scoprì un altro mondo.
Quando arrivò l’università fu una nube di sogni collettivi per un mondo migliore. Fu così che mi laureai con una tesi in storia in lettere moderne all’Università di Urbino, il 26 giugno 1970.
Un anno di servizio militare e nel 1971 l’inizio di una collaborazione con il professor Werther Angelini grazie ad una “borsa di studio ministeriale per l’addestramento didattico e scientifico”.
Il primo aprile 1974 lasciai Urbino per l’università di Bologna con la qualifica di “contrattista di ricerca” e quattro anni dopo mi ritrovai professore incaricato di Storia Sociale, insegnamento a cui da allora mi sono legato a doppio filo anche da associato e infine da ordinario.
Fedele nei secoli, si potrebbe dire, anche se nel tempo ho insegnato per esigenze didattiche anche Storia del risorgimento, Storia moderna, Storia contemporanea, nella stessa Bologna e nelle sedi decentrate di Ravenna e Rimini.
Proprio nella balneare cittadina romagnola, quando già incombeva il terzo millennio, mi trovai a caldeggiare l’attivazione del corso di laurea in Culture e Tecniche del Costume e della Moda, che, a missione compiuta grazie alla complicità di tanti, ho presieduto per sei anni, cioè fino al 2007 (se non ricordo male).
Un’esperienza gratificante: c’era tutto da inventare, i colleghi erano quasi tutti a contratto e la maggior parte alla loro prima esperienza, le fila degli iscritti si ingrossavano a ritmi esponenziali, la conquista di nuovi spazi era ogni anno all’ordine del giorno e quando avevamo gli uffici e le aule, mancavano le scrivanie e i computer.
Insomma non ci si annoiava (a parte le beghe create ad arte da qualche preside di facoltà malpancista!)
Acqua passata, dal primo novembre 2014 sono in pensione dopo quarant’anni e passa trascorsi all’università, diecimila studenti esaminati (uno più uno meno), circa cinquecento laureati (la maggior parte quando la tesi era una cosa seria o addirittura serissima), una trentina di libri (fra monografie e curatele), una lunga schiera di conoscenze e qualche amico qua e là.
Un lungo periodo in cui ho cercato di captare tante suggestioni: quelle iniziali di Werther Angelini e Lino Marini; poi quelle di Renzo Paci e Sergio Anselmi sull’onda dei “Quaderni Storici” e più tardi quelle interdisciplinari e ariose, a volte provocatorie, di Franco Della Peruta e Lucio Gambi. Senza tralasciare lo stimolante e dialettico sodalizio con colleghi coetanei come Luigi Faccini e Claudio Giovannini, con cui purtroppo la collaborazione si è interrotta troppo presto.
(I colleghi che non ho citato non me ne vogliano, perché con loro il rapporto culturale, lo scambio di idee, le occasioni amicali restano ancora aperti …).
1° novembre 2014